Il vocabolario dei piccoli gesti. L’Africa attraverso gli occhi dei bambini.

Fulvio Gazzoli

Fotoreporter e cofondatore di un ricovero per bambini in Burundi

 

Intervista a cura di Emanuela Miniati

 

L’Africa non è per tutti. È un mondo da scoprire, e per scoprirlo bisogna essere disposti all’ascolto. È questa la lezione che impara un fotografo, capitato in Burundi per curiosità, rimasto legato per sempre all'Africa per i suoi insegnamenti di solidarietà. Saranno i bambini a fargli conoscere quel mondo, conducendolo in un viaggio verso se stesso attraverso gli occhi degli altri.

«Che cosa fate, voi, nel tempo libero?». «Io mi occupo di solidarietà» - dice Giorgio, architetto. Va spesso in Burundi, ad aiutare dei bambini. «Solidarietà». Una parola che non si sente spesso, pensa Fulvio, fotografo per hobby, e ribatte: «Mi piacerebbe venire con te, a fare un reportage di quel che fai in Africa». Fulvio è cattolico, ha un grande rispetto per chi dedica parte della sua vita al bene altrui, ma non ha mai pensato a cosa significhi, nel concreto, praticare il messaggio evangelico.
La proposta di Fulvio, però, cade inizialmente nel nulla. Giorgio sembra schivo, è come se lo facesse aspettare. Sa che l’Africa non è per tutti, che bisogna essere disposti all’ascolto per partire. Anni più tardi, Fulvio ammetterà: «Chi ha la presunzione di andare in Africa a insegnar qualcosa ha sbagliato tutto». C’è sempre da imparare, soprattutto con i bambini. Il momento giusto per partire arriverà, per Fulvio, in una fase particolarmente complessa. Una ferita importante, il cuore aperto al dolore ma anche a nuove emozioni. Allora, la scoperta dell’Africa sarà, per Fulvio, l’occasione per entrare in contatto con un mondo nuovo e, attraverso di esso, con un lato di sé che non avrebbe mai pensato di poter conoscere.
È nel gennaio 2010 che si svolge il suo primo viaggio in Burundi, come fotoreporter. Dopo un tour attraverso il Paese, dai confini con il Congo, il Rwanda e la Tanzania, Fulvio giunge con Giorgio e l’amico don Pino alla missione di Mabaji, nel Nord-Ovest. Qui Giorgio ha realizzato, in collaborazione con le suore benedettine, un ricovero per bambini orfani e abbandonati. La mortalità delle madri è molto alta in Africa, a causa dell’alta prolificità e delle cure inadeguate, e sovente i genitori con tanti figli non hanno il denaro sufficienti per sfamarli tutti, perciò i più piccoli restano senza un tetto e una famiglia che li accudisca. Le terre del Burundi sono assai fertili, la zona beneficia delle acque dei Grandi Laghi e le temperature tropicali fanno crescere rigogliose piante da frutto e cereali. Ma gli abitanti non hanno le infrastrutture per pompare l’acqua, incanalare e irrigare i campi. Una persona guadagna, in media, 80 centesimi di euro al giorno. L’impatto con quella quotidianità è uno schiaffo in faccia per Fulvio.
Giorgio ha progettato l’edificio e le strutture per la coltivazione, che sarà necessaria a sfamare i bambini. Arrivano, al sabato, in una cinquantina per ricevere un pasto, uno solo alla settimana. Alcuni di loro fanno anche venti chilometri per raggiungere la missione dal loro villaggio, rischiando di essere aggrediti da animali feroci. Fulvio arriva proprio un sabato, ed è subito festa: i bambini gli corrono incontro, cantando. È spiazzato. Quella gioia e quell’affetto manifesti, non richiesti e così spontanei proprio non se li aspettava, ma sente di poterli accogliere. Due bambine gli si avvicinano, sporche, malnutrite, visibilmente indigenti, eppure felici. Non sa cosa dire, ma sorride. È allora che impara una lezione che per lui sarà la più importante di quel viaggio: il sorriso è un linguaggio universale. «È stata una scintilla inaspettata che mi ha letteralmente cambiato la vita». Voci, mani, risa avvicinano un uomo occidentale, bianco, un «mzungu» – così vengono chiamati spregiativamente i bianchi in Africa - a piccoli uomini neri, subsahariani. Ma avvicinano anche un adulto, uomo, a dei bambini. Le norme sociali ci hanno imposto che la cura dell’infanzia non è in genere affare da uomini; ma come reagiamo in un “altrove” in cui quelle sovrastrutture si infrangono?
Quella sera, Fulvio è insonne. Piange, si arrabbia, se la prende con Giorgio. Dove lo ha portato? Rivede la sua vita «come un film», ripensa a come ha speso il suo denaro in beni futili. Quei volti gli hanno sbattuto in faccia la differenza tra vivere e sopravvivere.
Da allora, Fulvio non smette più di andare in Africa. Va tre-quattro volte all’anno a Mabaji, dove diventa «Mzungo mzuri», il «Bianco buono». È riuscito a farsi conoscere e accettare dalle comunità locali, mostrandosi nella sua sincerità, stupita e a volte incredula, ma piena di buona volontà nell’intento di dare una mano concreta. «Non è banale che un uomo bianco passi una giornata intera con loro, che mangi il loro cibo, beva la loro acqua». La condivisione del pasto è un canale di comunicazione fondamentale: solitamente il «mzungu» si dimostra diffidente verso le loro abitudini, creando imbarazzo e distanza. Invece, Mzungu mzuri viene invitato ai banchetti, alle messe comunitarie in cui non si celebra solamente l’eucarestia, ma si discutono insieme i problemi del gruppo, dell’intero villaggio. Si rapporta con le istituzioni, uomini adulti, soprattutto, mentre con le donne il dialogo è molto più difficile. I suoi interlocutori primari restano, ad ogni modo, i bambini: sono loro il suo vocabolario illustrato della vita africana. «Quando vai in Africa, devi essere sempre munito di caramelle». I bambini lo circondano gridando «donnez-moi “bonbo”», «dammi una caramella». E le caramelle non le mangiano, come i “nostri” bambini. Le leccano una volta, poi le reincartano e le mettono in tasca, per conservarle. Fulvio sa che imparerà qualcosa ogni giorno dai loro gesti spontanei. «Se davo un pezzo di pane alle mie bambine, loro lo spezzavano e lo davano ai bambini più piccoli».
Per anni Fulvio investe nella missione delle suore, risparmia più che può per sostenerle nell’impresa di costruire una casa-famiglia che possa ospitare i bambini, cosicché non debbano fare tutta quella strada a piedi. Ma vuole fare di più: ben presto si rende conto che il denaro inviato alle organizzazioni di volontariato, alle Ong, alle missioni non raggiunge interamente chi deve beneficiarne, ma viene speso in gran parte per stipendiari funzionari, tecnici, benefattori. È così che decide di fare un investimento tutto personale, comprando dei terreni per farli coltivare alle missionarie benedettine e trarne il cibo necessario a sfamare i bambini dei villaggi vicini. Se c’è qualcosa che Mzungu mzuri ha imparato, è che quando sta male un bambino, sta male tutta la comunità. È questo il suo “mal d’Africa”.

Oggi, Fulvio è riuscito ad adottare le due bimbe che gli corsero incontro in un sabato d’inverno del 2010, con le mani sporche e i vestiti stracciati. Con loro, è venuto in Italia anche il fratello maggiore, per studiare. Ma nessuno dei tre ha dimenticato il valore della condivisione: il loro obiettivo è investire sull’educazione, per tornare dalla loro grande famiglia e aiutare chi non ha avuto le loro possibilità. Saranno loro i nuovi portavoce di un dialogo riuscito.

Fulvio Gazzoli appassionato fin da bambino di arti visive, di disegno e pittura, dagli anni 80 si dedica alla fotografia. È stato per oltre 20 anni consulente finanziario in  Allianzbank. Da circa 8 anni il suo lavoro fotografico si è focalizzato in Africa, dove si occupa di bambini in forte difficoltà.