La «Gacaca»: un esperimento di restorative justice

Luigi Scotto

Già ambasciatore d’Italia in Tanzania e in altri Paesi dell’Africa subsahariana

Un processo gacaca in corso, mentre viene filmato da un osservatore esterno occidentale

Intervista a cura di Emanuela Miniati

 

Oggi il discorso sull'Africa è dominato dal tema delle migrazioni, della povertà, delle guerre. Ma l'Africa è anche cultura positiva, comunitarismo, propositività, propensione al dialogo. Scopriamo insieme a Lugi Scotto un esperimento politico e sociale messo in atto nel Rwanda del 2000, che ha condotto alla ricostruzione del Paese all'indomani della feroce guerra civile che si è consumata sotto gli occhi della comunità internazionale.

È una fresca sera d’estate, quando abbiamo l’occasione di incontrare Luigi “Gigi” Scotto, già ambasciatore d’Italia in Tanzania e in altri Paesi dell’Africa subsahariana. Siamo a cena con Gigi per parlare di un fatto straordinario, un esperimento socio-politico messo in atto dal Rwanda all’indomani della guerra civile fra tutsi e hutu, scoppiata nel 1994, che ha portato allo sterminio, in soli quattro mesi, di circa un milione di persone. Colpevoli, secondo il governo dell’«Hutu Power», di essere di etnia tutsi. Si tratta della «gacaca», una forma di restorative justice che trae origine da pratiche comunitarie tribali rwandesi.

Non è facile raccapezzarsi tra i conflitti etnici dell’Africa orientale. Lo stesso concetto di «etnia» è il frutto di un pensiero occidentale, importato dai colonizzatori europei. Anzi, i coloni tedeschi e poi belgi hanno fomentato e sfruttato le divisioni tra le popolazioni locali, tutsi e hutu, per tenerle sotto controllo. Anche la Francia di Mitterand ha fatto lauti guadagni con il Rwanda diviso, investendo, insieme all’emergente gigante della Cina, nella guerra civile del ‘94. Un buon affare, per gli occidentali, se si pensa che lo staterello del Rwanda è una porta d’accesso privilegiata al Paese più ricco al mondo per risorse minerarie: il Congo.

Gigi ci racconta la tormentata storia del regno di Burundi e Rwanda, dove tutsi e hutu convivevano pacificamente, fino all’arrivo, alla fine dell’Ottocento, dei coloni tedeschi. Poi venne il tempo dell’«invenzione delle tribù» e delle teorie della superiorità della «razza» tutsi[1]. La storia della decolonizzazione del Rwanda è una vicenda di emancipazione dal positivismo evoluzionista, pagata a costo di un immane spargimento di sangue.

Ripercorriamo, con Gigi, la prima grande strage tutsi del 1958, l’«esodo biblico» dei rwandesi e la costituzione di un gruppo tutsi di lingua anglofona in Uganda, a capo di Paul Kagame. Alla fine degli anni Ottanta, l’influente Kagame, divenuto un forte capo militare nella lotta contro il presidente militarista ugandese Obote, al fianco dell'Uganda Resistance Army di Museveni, diede vita al Fronte Patriottico Rwandese (Fpr): l’obiettivo era di rientrare nella “terra promessa”, il Rwanda abbandonato negli anni Sessanta. «Il paragone buono è con gli ebrei», ci spiega Gigi. Stava per iniziare la guerriglia: al confine tra Uganda e Rwanda si battevano ugando-rwandesi anglofoni; nel resto del Rwanda, la maggioranza hutu dava il via allo sterminio della minoranza tutsi, francofona.

Quando, il 16 luglio 1994, Kagame e il Fpr presero la capitale Kigali, il nuovo governo rwandese, alquanto instabile, si trovò a dover giudicare i colpevoli di un genocidio premeditato dalla classe dirigente, per di più noto alla comunità internazionale. Come affrontare il processo a un’intera popolazione? Si stimavano circa 20.000 responsabili diretti, fra capi di Stato e militari, 250.000 carnefici e altrettante persone coinvolte nelle uccisioni sistematiche. All’inizio del 1994, il Rwanda contava 7.300.000 abitanti; tra il 6 aprile e il 16 luglio, circa 800.000- un milione di persone furono sterminate a colpi di machete. Per la maggior parte, le vittime erano di famiglia tutsi, il 20% erano invece hutu “moderati”. Un Paese di vedove, stuprate e sieropositive, negli anni della maggiore diffusione dell’Aids; un Paese di orfani, le famiglie distrutte dall’odio; un Paese straniero in patria, perché la nuova classe dirigente era sì tutsi, ma veniva dall’Uganda e parlava, come Kagame, inglese.

L’Onu istituì nel ’95 un tribunale speciale (Ictr) con sede ad Arusha, in Tanzania. L’Ictr avviò, fra gli altri, il processo ai «media dell’odio», responsabili delle emittenti radiofoniche e televisive. Ma la giurisprudenza dell’Ictr procedeva lentamente e con spese ingenti. Furono solamente 93, in totale, i casi trattati dal tribunale dell’Onu[2].

Di fronte a tali limiti, il nuovo governo rwandese di Kagame lanciò l’iniziativa della «gacaca»: una forma di giustizia ispirata ai tribunali tribali dell’Africa orientale, condivisa da tutsi e da hutu, rivisitata in chiave moderna. I processi gacaca prevedevano la partecipazione attiva della comunità: le famiglie delle vittime erano coinvolte nelle indagini, svolgevano pubblicamente l’interrogatorio sulla «gacaca», letteralmente l’«erba», cioè la pubblica piazza. Il primo a parlare era sempre l’accusato, che veniva spronato a confessare di fronte alle famiglie. L’invito al dialogo fu il principio fondante della gacaca. I giudici ponevano particolare enfasi sull’importanza dell’onestà, del sollievo delle persone colpite dalla violenza e sulla necessità di riconciliazione. La pena era ridotta a chi collaborava con la giustizia.

In primis, il governo fornì una lista di candidati a divenire giudici, sia tutsi sia hutu, che vennero eletti dalla popolazione. Si stabilì che solo i reati meno gravi potessero finire sotto la giurisdizione della gacaca. Per gli «interahamwe», i capi delle squadre armate di uccisori seriali, furono previsti processi speciali. Anche l’Ftp, il partito tutsi salito al governo, non fu giudicato dalla gacaca. Fu questa una decisione che lasciò molti malumori tra la popolazione[3].  I giudici della gacaca non erano certamente dei professionisti: in uno Stato distrutto dalla guerra civile, bisognava ricostruire anche le istituzioni. Eppure la gacaca, che pure ricevette critiche da molti giuristi per la sua incostituzionalità e la mancanza di professionalità dei magistrati, sarebbe stata accolta con favore dalla popolazione rwandese, sia tutsi sia hutu. Le famiglie riappresero a convivere e avviarono la ricostruzione sotto la guida di Kagame.

Nel giugno 2012 si sono ufficialmente conclusi i processi gacaca: 1.900.000 procedimenti e 1.700.000 condanne. La spesa? 48.000 dollari, a fronte degli 1,5 miliardi impiegati dall’Ictr dell’Onu.

Se non è possibile confrontare i risultati delle due forme di giustizia in termini meramente economici e numerici, non è altrettanto possibile paragonare i tribunali occidentali con una forma di giustizia messa in atto in una situazione di vacanza istituzionale, di fronte a un lascito di violenza così immane. La gacaca ha mostrato i suoi limiti di imparzialità e professionalità, come strumento ideato da un governo giovane e basato su un potere militare. Al tempo stesso, però, ha saputo creare un’unica comunità nazionale da una maggioranza colpevole e una minoranza terrorizzata. Tutto ciò valorizzando una pratica giuridica tribale, lasciando spazio a un’autodeterminazione che il colonialismo ha sempre negato al Rwanda. Oggi - spiega Gigi -, l’idea di democrazia è ancora lontana dalla politica africana. Ma in Rwanda non si parla più di «tutsi» e «hutu» e il Paese, sicuro e in forte sviluppo, è “una Svizzera d’Africa”.

 

Luigi Scotto è Consigliere d’Ambasciata presso la Direzione Generale per la Mondializzazione e le Questioni Globali del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Ha svolto una lunga carriera diplomatica nei Paesi dell’Africa subsahariana (Uganda, Costa d’Avorio, Tanzania), facendo parte anche della Direzione Generale dei Paesi dell’Africa subsahariana (2004). Nel 2009 si è trasferito a Filadelfia, dove è divenuto Console Generale (2010). È stato infine Ambasciatore della Tanzania, delle Isole Comore e presso la East African Community (2013-2016). Dal 2005 è Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica.

 


[1] Jean-Pierre Chrétien, Le défi de l’ethnisme. Rwanda et Burundi : 1990-1996, Karthala, Paris 1997.