L’attore pontefice. Mettersi nei panni degli altri.

Paola Bigatto

Attrice, regista, drammaturga e didatta teatrale.

Che cosa significa veramente "mettersi nei panni degli altri?" Gli inglesi preferiscono dire "mettersi nelle scarpe degli altri: ma il concetto non cambia!"
Non si può parlare di comunicazione o di relazione se non ci si pone il problema del punto di vista dell'altro, ma anche del "corpo" dell'altro. Paola Bigatto, attrice, drammaturga e regista, spiega quanto la pratica di "immedesimarsi nell'altro" sia fondativa della formazione e della pratica teatrale. Ma quanto è determinante questa capacità relazionale nel mondo della comunicazione, nell'ambito della giustizia, del dialogo tra diversi ambiti scientifici o nella mediazione tra culture?
Sarebbe interessante che nascesse un dibattito aperto in Metakoinè su questi temi.


Hannah Arendt indica, con la locuzione inglese mettersi nelle scarpe degli altri, la facoltà che rende l’uomo capace di atti di bontà, o comunque la capacità di usare il buon senso (è sempre un termine usato dalla filosofa) per opporsi al male banale, in particolare a quella “logica dell’idea” su cui si basano le ideologie, appunto, le quali, attraverso una catena di deduzioni logiche, allontanano l’uomo dal contatto con se stesso e con la propria coscienza. Mettersi nei panni degli altri è un’attività fondativa delle relazioni e dello spazio etico, di cui esiste un professionista: l’attore.
Mediamente gli attori studiano tre anni, per circa otto ore al giorno, per imparare come si fa a mettersi nei panni degli altri, apprendendo strumenti e sviluppando, nel proprio gabinetto alchemico, una personale strategia. La pedagogia teatrale è un mondo pressoché sconosciuto ai più, quindi non farò riferimento specifico a metodologie, insegnanti o maestri, ma solo a quegli esercizi e allenamenti nei quali rintraccio una convergenza rispetto a questa attività, mettersi nei panni degli altri.


Il primo strumento è l’osservazione
Per interpretare un ruolo, cioè per affrontare un personaggio della letteratura drammatica, ma anche per impostare la lettura ad alta voce di un testo, l’attore deve arricchirsi dell’umanità che lo circonda, per poter riprodurre corpi, energie, vocalità, che portino a rappresentare qualcuno o qualcosa che esulino dal proprio essere. A tal fine esistono molti esercizi di osservazione: in particolare, nel metodo di tradizione russa, una delle più importanti scuole teatrali del Novecento, si parla di schizzi: all’allievo viene proposto di osservare qualcuno per la strada e studiare come cammina, come si muove, e poi riportarlo a lezione di fronte ai compagni. Io propongo gli schizzi vocali, cioè l’ascolto di voci, sempre colte nella realtà, da studiare e riprodurre ai compagni in classe. Questo lavoro implica una buona raffinatezza nell’osservare e nell’ascoltare: è necessario individuare quali caratteristiche rendano particolare quel movimento, o quella voce, individuarne il centro, il motore energetico, per così dire, con tale precisione da arrivare a riprodurlo. Per farlo è necessario rispondere a molte domande, una volta individuato il soggetto interessante e la sua forma complessiva: come appoggia i piedi? È sbilanciato in avanti o indietro? Come tiene i gomiti? Come appoggia il peso…. E poi è necessario provare su di sé queste variazioni, esperendo come il corpo compensi certe posture, quali conseguenze abbia sul portamento un certo modo di appoggiare i piedi, e quale riverbero ha questa nuova corporeità sull’immagine interiore della persona, il suo stato sociale, la sua educazione, il suo vissuto, il suo approccio al mondo…. Queste lavoro, eseguito sull’osservazione di persone reali, costituisce la base per la costruzione del personaggio teatrale vero e proprio.


L’avvocato difensore
A proposito di personaggio, ricordo una affermazione di una grande attrice dell’Ottocento: sosteneva che l’attore deve essere l’avvocato difensore del personaggio. Qualsiasi delitto abbia compiuto, per interpretarlo noi dobbiamo sondarne le ragioni, anche se oscure o inattingibili, e dobbiamo assumerci la responsabilità di quei gesti e di quella personalità. E Eleonora Duse, la più grande attrice di ogni tempo, così scrive in una famosa lettera:


Recitare? Che brutta parola! Se si trattasse di recitare soltanto, io sento che non ho
mai saputo e non saprò mai recitare! Quelle povere donne delle mie commedie mi
sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre io m’ingegno di farle capire
alla meglio a quelli che mi ascoltano, quasi volessi confortarle… sono esse che adagio
adagio hanno finito per confortare me!… Come – e perché – e da quando mi
sia successo questo ricambio affettuoso, inesplicabile e innegabile tra quelle donne
e me… sarebbe troppo lungo, e anche difficile, per esattezza, a raccontare. Il fatto
sta che, mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! Io
non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – o se nacquero
perverse – purché io senta che hanno pianto, hanno sofferto o per mentire o per
tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo frugo non per mania
di sofferenza, ma perché il compianto femminile è più grande e più dettagliato, è più
dolce e più completo che non il compianto che ne accordano gli uomini.1


Con la sua caratteristica scrittura intensa e spezzata, o, come la definiva D’Annunzio, una scrittura ritmica e parlante, la Duse esprime in poche righe il cuore del suo lavoro, usando una serie di termini che potrebbero essere la base di un intero trattato di recitazione e di deontologia. Ma quello che qui è interessante sottolineare è la necessità dell’assenza di giudizio. Anche nelle tradizioni teatrali che escludono il concetto di immedesimazione, l’attore deve trasformare tutto in azioni e in corpo, in un’organicità che richiede una sorta di incarnazione dell’altro da sé. Nel testo deve rintracciare il motore delle azioni, che siano intenzionali o preterintenzionali, e dovrà studiare approfonditamente il passato, la provenienza culturale e sociale del personaggio, tanto che in alcune metodiche si arriva a una ricostruzione dettagliata della sua vita e addirittura dei suoi ricordi. Il piacere e l’impegno mimetico dell’attore arrivano a costruire dei veri replicanti, la cui storia va a nutrire la forma fisica, il dire dell’attore-interprete.


Il corpo dell’altro
Che cosa distingue questa follia così impegnativa da uno studio sociologico o psicologico? È il corpo, come si diceva. L’attore deve muoversi, parlare, camminare, respirare seguendo un dettato non suo, ma offrendo il suo corpo per un racconto. Alla base dell’azione di mettersi nei panni degli altri sta proprio il fatto che, dentro i panni, ci sta un corpo e dentro le scarpe ci stanno i piedi: un attore comprende il personaggio che deve interpretare guardando il bozzetto dei costumi, e indossando le scarpe giuste: non è comprensione, è respirazione, non è pensiero, è sguardo, volto, ginocchi, mani.


L’ego: giocare alle costruzioni
Il bello di tutto questo lavorio sta nel fatto che l’attore deve continuamente giocare con il più incognito e tormentato altro da sé che ci sia, cioè se stesso. La parte di sé in ombra, incognita, gli aspetti di sé che uno non vuol sapere di avere, dalla somiglianza con un parente che si detesta, alla conoscenza di sentimenti che non si vorrebbe aver conosciuto… così l’attore, attraverso lo studio di un altro da sé, quindi con una certa protezione, esplora proprio se stesso, e comprende che coabitano in lui molte facce, facce che può, con attenzione, mettere a servizio del lavoro. Così, nell’esplorazione dell’altro da sé, l’attore deve accettare, prima di tutto, la natura fluttuante e molteplice del proprio io. Ma a proposito di io, un altro elemento richiama l’attore a problematizzare la  certezza della nostra autopercezione di solida centralità del nostro io:, base di ogni pedagogia teatrale è quello che io chiamo il principio del Gladiatore, in quanto lo si trova espresso al meglio nel film di Ridley Scott nell’indimenticabile scena del Colosseo: Massimo, il protagonista, nell’arena con i compagni di sventura, nell’attesa che arrivino gli avversari del gioco gladiatorio, pronuncia questa frase: “Qualunque cosa esca dai quei cancelli, avremo maggiore possibilità di sopravvivere se saremo uniti, e se saremo uniti sopravviveremo”. “Stiamo uniti, stiamo vicini, uniamo gli scudi, come un sol uomo…”, continua a ripetere un Russell Crowe da sogno. Forse il paragone attore-gladiatore è un po’ enfatico, ma il concetto è lo stesso: per recitare bene non c’è altra possibilità che stare uniti. Il teatro si fa con gli altri. Forse questo è il più originario paradosso dell’attore: alla base del lavoro più egocentrico del mondo sta la certezza che, senza l’altro, non si può fare il teatro. Da qui molti esercizi in cui la composizione e l’ascolto degli altri è fondamentale, in particolare esercizi ritmici che costringono a stare dentro un gioco nel quale il mio apporto è solo e soltanto quello che il gioco stesso richiede, un tassello, un mattone in un muro, fondamentale, ma che da solo non avrebbe senso.


Ma allora il teatro è un luogo edenico?
Evidentemente no: gli attori sono preda di invidie abissali (d’altronde, voler essere un altro è la malattia professionale degli attori), tensioni spaventose, piccole e grandi carognate, diffidenze e gelosie. Però questo mondo, i cui abitanti si spostano di città in città, hanno una casa di solito disabitata da sé e abitata da altri, cercano lavoro con ossessiva regolarità, cambiano ambiente di lavoro con grande frequenza, è caratterizzato, per forza di cose, da una solidarietà inusuale in altre categorie. Forse i portuali di una volta, o alcune categorie operaie degli anni passati sono stati così capaci di correre al soccorso dei colleghi in difficoltà: case prestate, lavori segnalati, soldi imprestati, collette attivate, sono la norma di questa rete che capillarmente copre il territorio nazionale, transgenerazionale e solida. Si sa che si può contare sull’aiuto dell’altro. Non credo che sia solo per la nostra attitudine a metterci nei panni degli altri, ma più probabilmente perché la nostra vita anomala non ci concede di confondere l’amicizia con l’abitudine, ma mette alla prova l’affetto attraverso la distanza e la lontananza. Un’idea chiara di questa vicinanza tra colleghi si trova in una consuetudine teatrale di molti anni fa, il fischio comico. Premetto che il termine comico non significa, come oggi comunemente intendiamo, che fa ridere, ma dei comici, termine con cui erano definiti tutti gli attori. Ecco cosa era, nella testimonianza di uno dei più importanti studiosi italiani di teatro degli inizi del Novecento, Lucio Ridenti:
Gli attori di quel tempo vivevano così appartati e formavano un clan tanto chiuso, da riconoscersi perfino da un richiamo sonoro: chi scrive lo ricorda ancora attivo fin verso 1930. Era il “fischio comico”, un zufolìo prolungato e cadenzato, nato chissà come e quando, inconfondibile. Bastava udire quel fischio fuori di casa, in una strada, in stazione, in luogo comunque estraneo e sconosciuto per i comici, per riconoscersi e riunirsi. Se echeggiava di notte sotto una casa di abitazione, quel richiamo faceva accorrere alla finestra i comici […], poteva essere un niente […], ma si pensava subito al peggio: il malanno di qualcuno come il danno di tutti, l’incendio del teatro e la perdita dei bauli, unico bene patrimoniale, la cui difesa era strenua e continua.2
 

Attore pontefice massimo
Qualche anno fa è stata promulgata una circolare dal Miur per incentivare l’insegnamento nelle scuole del teatro, nelle scuole di ogni ordine e grado (ovviamente non mettendo a disposizione risorse economiche, quindi ipotizzando che il teatro lo insegnassero i docenti curricolari, evidentemente non affatto esperti in materia). Al di là della polemica (il teatro è l’unica disciplina che si può insegnare nelle scuole pubbliche senza un titolo di studio) mi sembra che sia davvero interessante ipotizzare la disciplina teatrale come un dato fondante dell’educazione civica, proprio perché aiuta a sviluppare i talenti a cui qui si è accennato: la capacità di osservare l’altro e se stessi, di mettersi in relazione in maniera non egotica, di sviluppare una forma di empatia concreta, quella delle scarpe, dei gesti, della corporeità, in breve, la capacità di collegare dei segni esteriori con una storia. Penso che queste attitudini siano necessarie per il vivere civile, che sempre più ci confronta con la diversità, e per la condivisione di spazi di relazioni. Gli strumenti dell’attore sono quelli dell’operatore di pace, del costruttore di ponti.


1 E.A. Rheinhardt, La vita di Eleonora Duse, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1958.
2 Lucio Ridenti La Duse minore, Gherardo Casini ed. Roma 1966.

 

Attrice, regista, drammaturga e didatta teatrale. Ha preso parte a una lunga serie di spettacoli diretti da Luca Ronconi, e deve la sua formazione drammaturgica alla collaborazione con Renata Molinari, con la quale ha scritto L’attore civile (Titivillus 2012). Collabora ai progetti di ricerca tra filosofia e teatro presso il Centro Asteria di Milano, dove porta in scena da anni il monologo La banalità del male, tratto da Hannah Arendt. Insegna recitazione presso la Scuola del Piccolo Teatro di Milano e l’Accademia Teatrale Veneta di Venezia.