Mediazione Familiare

Necessario ed utile strumento per meglio affrontare i conflitti del nodo famiglia, la mediazione familiare trova il suo fondamento in fonti normative internazionali, a cominciare dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (New York, 10 dicembre 1948) che, all’art.16, stabilisce che gli uomini e le donne “hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi”. 
Come noto, il percorso di mediazione familiare mira in modo peculiare a ristabilire un dialogo fra i principali interpreti del conflitto, ricostituendo un riconoscimento dell’altro o meglio l’eguaglianza giuridica ed anche psicologica tra le parti affinché raggiungano un “mutuo dissenso” sullo scioglimento del vincolo matrimoniale e un progetto libero dalla conflittualità e maggiormente sereno.
E’ rinvenibile un prodromo anche nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (ratificata dall’Italia nel 1955), che all’art. 8 disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare, che può essere considerato nel contempo principio ispiratore e limite dell'intervento mediativo.
La mediazione familiare, cercando di abbassare i toni e la conflittualità tra le parti, nasce dalla necessità di ristabilire la reciprocità del rispetto della vita privata e familiare.
Ed è un processo fondamentale anche per gli operatori “tecnici” che si occupano delle delicate questioni afferenti il conflitto poiché tutti dovrebbero rammentare che una famiglia, anche se in crisi o divisa, rimane pur sempre famiglia, nodo essenziale degli affetti.
La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata a New York nel 1979, ratificata nel 1985 essa si ripete la locuzione “interesse dei figli” negli articoli 5 lett. b e 16, e la mediazione familiare è uno strumento che mira a responsabilizzare i genitori su quale sia l’interesse dei figli e a coadiuvare il giudice nelle scelte in tal senso. Vi è un esplicito richiamo alla (bi)genitorialità nell’art. 5 lett. b e la mediazione familiare mira a recuperare proprio tale aspetto.
Infine nell'art. 11 par. 2 lett. c si parla di servizi sociali per consentire la genitorialità e la mediazione familiare certamente assume questa dimensione, anzi l’essere accompagnamento della genitorialità verso la comprensione della comune responsabilità nelle situazioni conflittuali tra coniugi (o partner) o tra genitori e figli è lo specifico della mediazione rispetto ad altri tipi di intervento nella e per la famiglia.
Nell’art. 16, alle lettere c e d, si legge: “[…] gli stessi diritti e le stesse responsabilità nell'ambito del matrimonio e all’atto del suo scioglimento; gli stessi diritti e le stesse responsabilità come genitori, indipendentemente dalla situazione matrimoniale, nelle questioni che si riferiscono ai figli”.
La mediazione mira a stabilire questo statuto di stessi diritti e stesse responsabilità.
L’art. 5 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1984 e ratificato nel 1990 recita: «I coniugi godranno dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civilistico tra loro e nelle loro relazioni con i loro figli, in caso di matrimonio, durante il matrimonio e dopo la fine del matrimonio stesso. Questo articolo non impedirà allo Stato di adottare le misure necessarie per la tutela degli interessi dei figli».
L’attività mediativa incarna sicuramente la ratio legis di questa disposizione, tanto nella prima che nella seconda parte. Quanto stabilito, a livello europeo, nel suindicato art. 5 era stato già convenuto in due articoli (art. 23 par. 4 ed art. 24 par. 1) del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York nel 1966 e ratificato nel 1977.
I conflitti familiari hanno visto negli ultimissimi tempi una considerevole fioritura di strategie di intervento, che non sarebbe fuori luogo considerare anche eccessiva: alla tradizionale e radicata mediazione familiare, difatti, si sono aggiunti il diritto collaborativo, la negoziazione assistita e il rito partecipativo, fino alla più recente sperimentazione della coordinazione genitoriale
Difatti, se il diritto collaborativo soffre della complessità dell’intervento, della numerosità degli attori (uguale costosità) e soprattutto della necessità che entrambi i difensori abbiano aderito a tale modello – circostanza che ne limita notevolmente il campo di applicabilità – la negoziazione assistita, che ne rappresenta la versione ufficializzata, oltre a perderne il più apprezzabile requisito, ovvero l’obbligo per i difensori di abbandonare la vertenza in caso di insuccesso, denuncia pesanti inadeguatezze giuridiche, a partire dall’avere ignorato totalmente l’ascolto del minore. Un passaggio che la legislazione vigente considera come un atto dovuto se non sussistono circostanze particolari, rimesse però all’apprezzamento del giudice; il che vuol dire che nella negoziazione assistita si può arrivare fino al termine del percorso, ovvero all’accordo, senza che in alcun momento al minore sia data la parola.
Vero che la negoziazione assistita invoca anche il ricorso alla mediazione familiare in caso di fallimento, ma non può farsi a meno di notare quanto sia illogico e mal fondato questo riferimento.
Vige, infatti, ai sensi della legge istitutiva (art. 6 comma 3, L. 162/2014) un obbligo per gli avvocati di segnalare la possibilità di servirsi della mediazione familiare:  “Nell'accordo si da' atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare”. Prescrizione quanto mai bizzarra ove si pensi che se le parti non si sono accordate non esiste alcun documento ove si attesti che l’informazione c’è stata e che se, viceversa, l’accordo è stato raggiunto la mediazione non serve più.  Comunque, volendone valutare almeno approssimativamente l’efficacia concreta, voci ufficiose indicano in poco più di un centinaio (e pressoché tutte in materia familiare), le negoziazioni assistite comunicate sino al maggio 2015 all’Ordine di Roma, il più popoloso d’Italia, ex art. 11 l. n. 162/ 2014. Per meglio comprendere il dato occorre rammentare che presso il Tribunale ordinario di Roma si celebrano circa 10.000 separazioni all’anno.
Quanto al rito partecipativo sono certamente assai brillanti i risultanti conseguiti, che per il 2013 hanno visto l’80% circa di successi completi e in aggiunta un 10% circa di vertenze finite giudizialmente per la parte economica. Resta il fatto che il procedimento non esce dall’ambito del tribunale e si svolge sotto la guida e con i suggerimenti di un terzo che è anche Giudice Onorario Togato di quella corte; il che non garantisce una spontanea effettiva adesione alle modalità concordate.
Saggiamente, quindi, la modulistica in uso nel Tribunale di Milano non omette di rammentare preliminarmente alle parti la possibilità di utilizzare la mediazione familiare (“Rimette al giudice delegato di suggerire ai genitori una possibile soluzione condivisa del conflitto, verificando anche la disponibilità delle parti a sperimentare un percorso di mediazione familiare”). Altra circostanza sfavorevole, tuttavia, è che al momento i soli tribunali di Milano e di Cremona praticano il rito partecipativo; né può pensarsi ad una sua rapida e illimitata esportazione, se non altro per motivi di natura organizzativa.
Quanto alla coordinazione genitoriale, si tratta di un nuovo tipo di intervento extragiudiziale in cui un terzo si mette a disposizione delle parti per aiutarle a mettere in pratica un proprio programma di genitorialità, avendone ricevuto incarico dal giudice o essendo stato chiamato dalle parti stesse, di fronte a gravi difficoltà incontrate, a causa di una esasperata conflittualità, nel gestire le regole stabilite. E’ una strategia già affermata negli Stati Uniti, della quale si sta iniziando la sperimentazione anche in Italia. Premesso che si trova ancora ad uno stadio preliminare, è comunque destinata ad essere utilizzata solo in circostanze e fasi particolari della rottura del legame di coppia.
Prendendo in considerazione, infine, la mediazione familiare, evitando di rammentare i suoi numerosi vantaggi, è tuttavia comune esperienza di chi la pratica l’esistenza di una sproporzione tra lo sforzo fatto dal mediatore e dalle parti – ivi compresa la lunghezza del percorso e lo stress di ciascun incontro, che spesso lascia la sensazione del girare a vuoto – e la percentuale dei successi.
Approfondendo l’analisi, si può convenire che quello che è il maggior pregio della mediazione - ovvero che il potere decisionale è rimesso direttamente alle parti, o meglio, a ciascuna delle parti individualmente considerata - non di rado ne costituisce il limite, sul piano operativo. Non di rado, difatti, accordi faticosamente costruiti e anche assolutamente interiorizzati e fatti propri dai mediati saltano al momento della rilettura da parte di uno dei legali, assente dal tavolo della mediazione.
Ancora più spesso neppure si accede al percorso perché quanto meno una delle parti non si sente sufficientemente “protetta” in una sede in cui manca il difensore.
Senza contare quanto spesso il necessario e doveroso lavoro di informazione viene scambiato per pregiudizio. Si pensi, tipicamente, all’antico confronto fra i due fondamentali modelli mono- e bigenitoriale. Si consideri quanto spesso una madre è convinta in perfetta buona fede che una frequentazione sbilanciata, ovvero con la propria netta prevalenza, sia l’assetto che meglio realizza l’interesse del figlio, soprattutto se piccolo (anche se relativamente tale). In tale situazione, se il mediatore, allo scopo di documentare oggettivamente i risultati della ricerca scientifica, le metterà a disposizione una documentazione che attesta conclusioni diverse verrà immediatamente considerato “ostile” e la mediazione si avvierà al fallimento. E più fondata, abbondante e convincente sarà la documentazione più aumenterà la probabilità che il tavolo della mediazione venga abbandonato [occorre infatti tenere ben presente che il mediatore – così come, a maggior ragione, il giudice – benché privo di poteri decisori, viene sempre considerato da entrambe le parti come “terreno di conquista” e la sua terzietà viene sempre sogguardata con il costante sospetto che in realtà sia schierato con l’altro].
Stando così le cose, ferma restando la validità intrinseca della mediazione familiare e l’interesse sociale a promuoverla (ad esempio mediante un passaggio preliminare informativo obbligatorio presso un centro accreditato, quale condizione di procedibilità per potersi separare), è apparso opportuno elaborare una nuova modalità di intervento che raccolga il meglio delle esperienze mediative già note integrandolo con quegli elementi correttivi che possano assicurargli una maggiore efficacia.