L’elaborazione di una riforma organica, di sistema, degli strumenti stragiudiziali di risoluzione delle controversie è una necessità del Paese. Nei mesi scorsi, ho istituito una Commissione, presieduta dal prof. Guido Alpa, confidando che possa contribuire al ridisegno normativo della materia. Ma ho più volte insistito sulla necessità che l’introduzione e la promozione di nuovi strumenti negoziali sia accompagnata da un cambio di mentalità, da un diverso approccio e da un atteggiamento culturale di disponibilità e apertura verso le ADR.

A questo fine, il Ministero della Giustizia ha incoraggiato in questi mesi tutte le iniziative che possono favorire il più ampio confronto di esperienze e di competenze in materia.
L’attivazione e la diffusione delle ADR nel nostro Paese non si possono comprendere se non si collocano, certo, in un’ottica di degiurisdizionalizzazione, in ragione degli effetti deflattivi che producono sul sistema, ma anche nella prospettiva di una diversa concezione del servizio giustizia, che è storicamente distante dall’esperienza giuridica del nostro Paese e che, tuttavia, va incoraggiata e sostenuta.
È stato detto che a tali strumenti è affidata una «rivoluzione di autentica qualità etica»1. Per esserlo, però, occorre pensare ai metodi negoziali di composizione delle controversie non solo come ad una strategia per decogestionare la giustizia civile statale e il carico di lavoro dei giudici professionali, ma anche come un efficace strumento di accesso alla giustizia. Come traduzione concreta di quella sensibilità per l’effettività dei diritti sociali, che ha ispirato l’ambizioso progetto di «access to justice» di origine nordamericana, del quale andrebbe senz’altro colto il valore anche come metodo di analisi degli istituti giuridici.

All’incirca vent’anni fa, è in questi termini che si esprimeva la Commissione europea. Nel Libro verde, in cui offriva una visione d’insieme sui modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, la Commissione formulava infatti l’auspicio che lo sviluppo delle forme stragiudiziali di composizione delle controversie fosse percepito «non come un modo per rimediare alle difficoltà di funzionamento del sistema giudiziario, ma come una forma di pacificazione sociale più consensuale e, in molti casi, più appropriata del ricorso al giudice o ad un arbitro».
È tempo di raccogliere seriamente questo auspicio, rendendo più coerente e omogenea la materia, ma anche smuovendo qualche radicata abitudine di pensiero, in modo da adeguare l’offerta dei servizi della giustizia alle esigenze di una società moderna e complessa qual è quella italiana.
Il nostro Paese è infatti rimasto a lungo distante dalle tecniche giuridiche cosiddette “alternative”, per ragioni di carattere prevalentemente storico. In Italia, l’amministrazione della giustizia si fonda infatti su alcune disposizioni della Costituzione che rappresentano una garanzia per gli amministrati e definiscono i limiti dei poteri pubblici.

La nostra Costituzione garantisce infatti il diritto di tutti (non solo dei cittadini) di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi; afferma il carattere inviolabile del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento; stabilisce che nessuno possa essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge e infine dispone che i giudici, soggetti solo alla legge, svolgano la funzione giurisdizionale in qualità di magistrati ordinari, istituiti e regolati in base alle norme sull’ordinamento giudiziario. A questo set di principi fondamentali la Costituzione aggiunge anche l’assicurazione, per i non abbienti, di poter fare comunque valere i propri diritti innanzi a un giudice.

Ebbene, se questo è il modello di amministrazione della giustizia entro cui va inquadrato l’esercizio della giurisdizione, e da cui proviene e su cui si fonda l’esperienza giuridica del nostro Paese, è chiaro che risulta limitato l’affidamento a soggetti diversi dai magistrati ordinari. Giudici ordinari, giudici di pace, arbitri sono ammessi, ma il cardine del sistema rimane il magistrato ordinario in quanto funzionario dello Stato.

Il contenzioso finisce così per confluire quasi per intero sulla magistratura e quindi sulla macchina della giustizia di natura pubblica. L’ADR come modo generale di composizione delle controversie, “alternativo” al processo di cognizione dinanzi al giudice statale, rimane ancora ai margini del sistema.

Queste precisazioni mi sembrano indispensabili per chiarire il contesto dentro il quale ci muoviamo, e che – è opportuno dirlo nell’attuale congiuntura – non è in alcun modo investito dalla riforma costituzionale, che interessa altri, non meno rilevanti aspetti dell’ordinamento della Repubblica.

Ma del contesto – non istituzionale, ma ambientale e sociale – fa parte anche l’elevato contenzioso che si registra nel nostro Paese.

Niccolò Tommaseo – autore del grande Dizionario della lingua italiana, che è una delle istituzioni culturali su cui si è retta la nostra storia unitaria – diceva, pensando proprio all’Italia, che «certi Paesi sono più litigiosi che certi altri; e non sempre sono i peggiori»: c’è da augurarsi che avesse ragione.

Resta però il fatto che una tale litigiosità appesantisce seriamente la macchina della giustizia. Si tratta peraltro di un fenomeno riscontrabile in molti Paesi, come risulta dalle statistiche dell’OECD, fenomeno che la crisi economica ha sicuramente amplificato. È chiaro però che siamo dinanzi a un dato strutturale, se è vero che già negli anni Settanta fu coniato, negli Stati Uniti, l’espressione «litigation society», con riferimento alle società di capitalismo avanzato, nelle quali il livello di giuridicizzazione dei rapporti economici e sociali è assai intenso.

 

Nel definire progressivamente un sistema generale di composizione delle liti, che estenda l’ambito di operatività della giustizia alternativa a una più ampia varietà di controversie, il nostro Paese sta negli ultimi anni avviando un percorso di riforma di grande portata. Esso è sorto – come si diceva – dall'esigenza di risolvere le criticità dell'amministrazione della giustizia, ed è passato attraverso altri momenti significativi: penso in particolare al completamento del progetto di digitalizzazione degli atti processuali, il c.d. processo civile telematico, e alle modifiche alle regole processuali dirette a ridurre i tempi del processo, a semplificarne le fasi e la redazione degli atti.
I risultati sono assai significativi. Basta confrontare, per averne prova, i miglioramenti attestati da classifiche internazionali autorevoli come il Rapporto Doing Business della Banca Mondiale. Nell’edizione del 2016 l’Italia ha infatti guadagnato 36 posizioni. In tre anni, le posizioni guadagnate nella classifica “Enforcing contracts”, indicatore utilizzato dalla Banca Mondiale nel Rapporto, sono state 49 – dalla 160° alla 111° posizione – grazie anche al miglioramento sui tempi di trattazione del contenzioso commerciale.
In questo panorama di interventi, la specificità, nell’ambito delle ADR, su cui vorrei da ultimo brevemente soffermarmi è data dalla obbligatorietà, nel sistema italiano, della mediazione in alcuni specifici settori dei rapporti tra privati.

Questo requisito è stato sottoposto – com’è noto – al vaglio della Corte costituzionale. I dubbi sollevati, in particolare dalla obbligatorietà del tentativo di conciliazione come condizione per la presentazione della domanda giudiziale e dell'affidamento ad enti pubblici e privati per la costituzione di organismi di conciliazione, non sono stati raccolti dalla Corte, il cui intervento ha riguardato soltanto il procedimento di creazione del modello normativo. Che è stato dunque riproposto, nella convinzione che solo la costrizione a tentare la conciliazione poteva indurre le parti (e gli avvocati che le assistono) a fare ricorso alle ADR, invece di sottoporre immediatamente la loro causa dinanzi al giudice ordinario.
Il modello è tuttora in fase di sperimentazione, ma i dati che ha raccolto il Ministero in proposito sono confortanti, sia per quanto riguarda i volumi complessivi, arrivati fino a 196.247 nel 2015, sia il tasso di successo quando le parti si siedono al tavolo della mediazione.
Il sistema di mediazione, poi, è stato di recente integrato con la c.d. negoziazione assistita, affidata agli avvocati, che nelle materie in cui la conciliazione è obbligatoria, possono, in alternativa alle procedure previste, negoziare per conto dei rispettivi clienti.
Ricordo un dato che mi sembra di qualche rilievo: l’incidenza particolare nell’utilizzo dei nuovi strumenti in materia di separazione e divorzio, oggi possibile senza recarsi in Tribunale o alla sola presenza dei propri avvocati (oppure in certi casi anche senza avvocati, in Comune, di fronte all’ufficiale di stato civile). Nel solo 2015 vi sono stati circa 43.000 ricorsi a questi strumenti, di cui più di venticinquemila per accordi di divorzio, e più di sedicimila per accordi di separazione.
Molto diverso è il discorso sull’arbitrato, che ha nel nostro Paese una storia millenaria, e che dunque ha una sua propria traiettoria.

La disciplina vigente è stata modificata più volte, sia per renderla adeguata alle regole e alle esigenze della comunità internazionale, sia per semplificare e rendere più agevole questo mezzo di risoluzione delle controversie. Il ricorso all’arbitrato è però sempre più frequente, non è più riservato soltanto ai rapporti d’impresa, né soltanto alle questioni economicamente più rilevanti.
Il favore con cui guardiamo a questi strumenti è peraltro dimostrato in concreto dall’introduzione di incentivi al loro impiego, grazie a bonus fiscali per chi dirime la lite fuori dalle aule del tribunale, ricorrendo alla procedura di negoziazione assistita o a procedimento arbitrale. È nostra intenzione confermare queste misure anche nel prossimo futuro.
Una situazione come quella che ho brevemente descritto credo confermi l’impegno del Governo in materia. Ma bisogna riconoscere che ciò che vi è di buono o di cattivo in una legge o in un istituto giuridico dipende anche dal modo in cui viene interpretata e applicata. Per questo, il Governo insiste sul confronto con le categorie dei professionisti e degli stakeholders, confidando che i cittadini e gli utenti del “servizio giustizia”, oltre che fruitori, possano farsi in certo modo anche “co-gestori” del sistema. La costruzione del consenso sociale e professionale intorno ai cambiamenti in atto è fondamentale, ed è il motivo per cui personalmente non mi stanco di rivolgere inviti al dialogo, al confronto, alla cooperazione, agli ordini professionali come alla magistratura, e in generale a tutti gli operatori del mondo della giustizia.
E penso di poter dire che quest’opera – che è poi l’opera della politica, la sua specifica e propria opera di mediazione – stia dando buoni frutti, e altri ancora potrà darne di importanti nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

 

Andrea Orlando

Ministro della Giustizia

1 Prolusione di Giorgio Santacroce, Presidente della Corte di Appello di Roma, all’inaugurazione del XXI Corso Jemolo dell’Istituto Regionale di Studi Giuridici del Lazio, 21 febbraio 2012.