Mediazione, Filosofia, Diritto

«My story is a story of hope»: francesi e migranti. Un esperimento di dialogo attraverso le immagini

Emanuela Miniati

Dottore di ricerca in Storia Contemporanea

"Il ponte tra i popoli" (2017). Patrick Willocq rappresenta la Francia, terra d'asilo, con i suoi diversi volti: chi accoglie e chi respinge. Fondation Manuel Rivera Ortiz, festival Rencontres de la photo, Arles

 

In una piccola comunità di campagna della Francia, divisa dall'arrivo di un gruppo di richiedenti asilo, un esperimento artistico trova la strada per far dialogare le persone. Le immagini diventano lo spazio "neutro" per esprimere se stessi, al di là di ogni giudizio. Uno spazio dove tutti trovano il loro posto. E la vita continua, insieme.

Saint Martory, una comunità spezzata

 

In una Francia divisa dal dibattito elettorale delle presidenziali del 2017, il discorso migratorio invade il discorso pubblico e la società è profondamente turbata. I partiti politici tradizionali non sanno rispondere al disorientamento creato dal bombardamento mediatico: ondate di parole, ondate di immagini, ondate di persone si avviluppano in un Mediterraneo smarrito, confuso, ostile. Si fa strada la destra estrema di Le Pen, prende piede un discorso xenofobo esplicito che avalla il disegno di una «fortress Europe» dei muri. Un’Europa sempre più chiusa ai suoi confini, ma anche divisa al suo interno, che non trova più un senso al suo progetto unitario.

È all’inizio di marzo, nel vivo della campagna elettorale, di fronte al collasso delle forze socialdemocratiche di Hollande, che un fotografo lancia l’idea di «My story is a story of hope». È un progetto artistico che vuole usare le immagini per far tornare le persone a parlarsi, ad ascoltarsi, senza giudicarsi. Patrick Willocq viene a sapere che Saint Martory, una piccola comunità di 950 abitanti nell’Haute-Garonne, nel Sud-Est della Francia, è sconvolta dall’arrivo di un gruppo di richiedenti asilo. È il procuratore di Saint Martory che lo contatta, perché conosce gli esperimenti di partecipazione artistica di Patrick.

Patrick parte allora per un viaggio di conoscenza verso Saint Martory. Scopre che nell’estate 2016 lo Stato ha insediato un Cada, un centro di accoglienza, con una tipica decisione centralista, dall’alto: non c’è stata una consultazione della popolazione, non c’è stata una campagna di informazione preventiva. La Francia è in preda agli attacchi terroristi, in quei mesi. È il panico. Patrick trova una «coabitazione forzata». Sono 50 persone, di 15 nazionalità differenti. Le autorità francesi vogliono evitare una «ghettizzazione» dei migranti, perciò hanno preferito mescolare diverse provenienze. Chi sono questi «stranieri» che arrivano in massa nel piccolo paese di Saint Martory? Che cosa vogliono? I sanmartoresi non capiscono la loro lingua, vedono giovani uomini e donne che non lavorano e si domandano perché le loro tasse debbano mantenere quegli sconosciuti… Da parte loro, i migranti sono spaesati. Pensavano di giungere a Tolosa, una grande città; ma ad aspettarli c’è un territorio desolato, e lunghe attese per ottenere i documenti. Lo Stato francese non consente loro di cercarsi un’occupazione. Eppure, tutto quello che chiedevano era solo di poter lavorare e ritrovare una dignità che il Paese d’origine ha loro negato.

Francesi e migranti abitano in case diverse, parlano lingue diverse, spesso hanno la pelle di colore diverso, vestono in modo diverso, mangiano in modo diverso. Si trovano assai strani, a vedersi così da lontano. Ma nei mesi che trascorre a conoscere quelle persone, Patrick si rende conto che, in fondo, in paese tutti si conoscono. Di fronte a un discorso mediatico estremamente polarizzato sulla migrazione, le opinioni dei sanmartoresi non sono poi, nel concreto, così agli antipodi.

«E se vi chiedessi di raccontarmi che cosa ne pensate di “quegli altri”? Del resto, nessuno vi ha lasciato lo spazio per dire quello che pensavate». È questa la proposta di Willocq e dei due curatori Nicolas Havette e Maria Pia Bernardoni: creiamo uno spazio «neutro», dove ognuno possa dire la sua, fuori dai denti, senza essere giudicato. Ascoltando tutti.

La sfida artistica è quella di rompere gli schemi del fotodocumentario per porlo al servizio della comunità. «Faremo foto e video insieme per rappresentare quello che è successo». Sanmartoresi e richiedenti asilo ci stanno. Da un lato i “pro” migranti, dall’altro i “contro”; in mezzo, i nuovi arrivati. In tutto, 64 attori e attrici che, dice Patrick, «creano un lavoro artistico che riflette la loro storia e mostra l’universalità della loro condizione».

 

Le immagini: uno spazio neutro per esprimersi

 

Gli artisti usano le immagini per esplorare la loro forza comunicativa: video e fotografie diventano strumenti per raccontare le persone e il loro modo di vivere. Sono veri e propri documenti della quotidianità, «fattori di conoscenza e comprensione delle questioni del nostro tempo». Le immagini create dagli uomini e dalle donne di Saint Martory diventano un’esperienza di dialogo, di condivisione. Queste persone, insieme agli artisti, decidono di esprimersi attraverso la videocamera e la fotocamera. Non sono più soltanto testimoni della loro vita, ma attori in prima persona: scelgono il loro ruolo sul set, con chi interagire, con chi no. La messa in scena è il frutto di un lavoro collettivo, di una mediazione fra le esigenze degli artisti e di ciascuno degli abitanti di Saint Martory, vecchi e nuovi.

Al castello di Saint Martory, viene allestito il primo set. I sanmartoresi inscenano un banchetto paesano: sono intenti a pasteggiare, beati, con prodotti tipici locali, in abiti agresti. Una scena iconica, dai colori saturi. Dietro di loro, arrivano con paracadute e salvagenti dai colori accesi migranti da ogni dove. L’effetto estetico è idiosincratico.

 

La seconda foto, che sarà allestita esattamente accanto alla prima, vede gli stessi sanmartoresi intenti a continuare la vita quotidiana: chi mangia allo stesso tavolo, chi gioca a bocce, chi raccoglie i prodotti agricoli della sua terra. In mezzo a loro, defilati, stanno i migranti: alcuni attendono alla porta un documento, altri si relazionano timidamente con loro. La vita trascorre, ad ogni modo. La convivenza è possibile.

Le persone hanno sempre più voglia di parlare e soprattutto di farsi ascoltare. Si mettono volentieri davanti alla telecamera, si sentono riconosciuto il proprio ruolo in quella storia. «E se tu lasciassi il tuo Paese?», chiedono gli artisti. È questo il filo conduttore dell’intervista a più voci, «Si je quittais mon Pays», che riflette una Saint Martory variegata, fatta di vecchie e nuove generazioni migranti che, malgrado tutto, convivono.

 

Buone pratiche e buoni propositi

 

Le immagini hanno un valore potente: possono essere viste e riviste da tutta la comunità di Saint Martory, anche da chi non ha voluto partecipare al progetto di Willocq. E così gli abitanti scopriranno che è possibile dire la propria, dirlo in faccia agli altri, e che gli altri ti ascoltino. La rabbia, nata dalla frustrazione di sentirsi inascoltati, si affievolisce. Tutto sommato, la vita va avanti a Saint Martory, anche se non si va d’accordo. Anche se ci sono degli “stranieri”.

Alla fine del 2017, racconta Delphine, nei pressi del paese viene installato un nuovo Cada, ma questa volta i richiedenti asilo sono ben 180. Ci sono i favorevoli, i contrari, ma i sanmartoresi non sono più impreparati come prima. Ora sanno che cosa li aspetterà, sanno che, in fondo, un modo per convivere con i nuovi arrivati si troverà. Anche i nuovi migranti sono meno spaesati: chi li ha preceduti sa dare buoni consigli su come iniziare a inserirsi.

Patrick Willocq presenta oggi il suo progetto ai Rencontres de la Photo, il festival internazionale di fotografia che si tiene ogni anno ad Arles, il paese fra Provenza e Camargue famoso per la sua antica arena romana. Patrick spiega che vuole usare le immagini per ridare la dignità che i media hanno tolto ai migranti: rappresentarli come persone, nella loro quotidianità, nei loro sentimenti, al di là dei cliché sofferenti, indigenti, piangenti. Non solo vittime, ma essere umani. Il dibattito si anima. Il pietismo è parte integrante della nostra cultura, che ci ha inculcato il senso di colpa e la vergogna. È ciò che proviamo di fronte alla sofferenza. Ma la pietà ci tiene distanti dalla compassione: se gli “altri” sono “diversi”, allora possiamo tenerli ancora “distanti”.

I commissari dell’esposizione confidano nell’energia propulsiva delle immagini. I video, le fotografie sapranno parlare anche al di fuori di Saint Martory, per fare di un esperimento riuscito una best practice da esportare. Nicolas è particolarmente preoccupato per le roboanti dichiarazioni del ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini. Spende dure parole per un’Italia così vicina, eppure così estranea. Maria Pia è invece piena di speranza. Vuole provare a ripetere l’esperimento nel suo Paese. È un avvocato, ma è anche una mediatrice. Crede profondamente nelle persone, nella loro capacità di ritrovare un’innata solidarietà, se poste di fronte ai sentimenti che accomunano qualsiasi essere umano. Del resto, non è forse vero che il giorno della presentazione del progetto a Saint Martory, quando le autorità locali hanno dimenticato di organizzare il catering, è stata proprio Bibiche, la ristoratrice lepenista, a improvvisare un pranzo per tutti i convenuti?

Emanuela Miniati è Dottore di ricerca in Storia all’Università di Genova e in Lettres et Sciences Humaines all’Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense. Si occupa di ego-documents, migrazioni italiane, antifascismo, storia del privato. Fa parte del Comitato scientifico nazionale Anpi e collabora con l’Archivio ligure della scrittura popolare. Ha pubblicato per Ediesse Un politico d’antan. Armando Magliotto fra partito, sindacato ed Enti locali, Ediesse, Roma 2017.